25 Nov Contro la violenza sulle donne c’è bisogno di cura: racconto di un viaggio tra il maschile e il femminile
È una mattina di novembre e ci viene chiesto di progettare qualcosa rispetto alla giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Subito partono mille riflessioni, ma una domanda emerge su tutte: «perché del femminile dovrebbe parlare solo il femminile? Perché non lo proponiamo al maschile?». E così, in men che non si dica, ci incontriamo con Tiffany. È forse la prima volta, in tanti anni, che ci vediamo e ascoltiamo veramente. Nascono idee e suggestioni e, nuovamente, in men che non si dica, in una serata nebbiosa sono in viaggio, per approdare a Romano da Tiffany e dagli uomini dell’@home.
10 Novembre, comunità maschile @Home, Romano di Lombardia
Mi rendo conto da subito che entro in una casa, vengo ospitata a casa loro. Lascio la giacca e la borsa e vado subito in cucina per le presentazioni: bolle l’acqua della pasta, la tavola è apparecchiata, c’è del buon salame e formaggio, c’è tutto quello che serve per nutrire il corpo e non solo. Tra risate, battute goliardiche e candidature spontanee per fare i volontari “da noi al femminile”, inizia la nostra cena. Si parla e si scherza e a me sembra di essere stata in quella casa, a casa loro, mille altre volte. Tutto è famigliare, compreso lo sguardo indagatore e curioso verso me e Tiffany a chiederci «cosa avete in mente?». E così tra un boccone e l’altro spieghiamo perché siamo lì ed è subito racconto, è un fluire di parole e emozioni.
Ma è tempo di sparecchiare e a noi servono la collaborazione e l’aiuto maschile per portare un baule, uno scatolone, e i 25 kg di creta con vaso annesso. E in men che non si dica la nuova tavola, che nutre l’anima, è imbandita. Si parte, pennelli alla mano, per il viaggio verso quel femminile di cui aver cura e da proteggere. Io sono lì e ad ogni loro colpo di colore, ad ogni confine accennato, ad ogni tentennamento sento e vivo un emotivo che è apertura, cura e tenacia, è paura. Ma è soprattutto desiderio di riparazione. Sono dentro ad un sentire delicatamente impetuoso. In men che non si dica si va a fumare serve una pausa, serve prendere spazio per lasciare spazio. Io resto lì ferma, guardo Tiffany e in quello scambio silente vedo che siamo lì insieme. Subito riparte la condivisione e i colori e i tratti diventano parola, quanta vita in quelle parole, quanto cuore. In men che non si dica sono le dieci e siamo in periodo “coprifuoco” ma, soprattutto, il desiderio di quelle telefonate al femminile di cui aver cura e da proteggere non può attendere oltre. Carichiamo veloci le macchine, poche parole e un abbraccio, proprio come quando ci si saluta dopo un lungo viaggio insieme.
12 Novembre, comunità femminile Casa Aurora, Cologno al Serio
E poi un giovedì pomeriggio si approda a Casa Aurora. Sembrava di traslocare: baule, creta, separé, insomma dal baule della mia auto stava uscendo tutta la mia casa, stava uscendo tutta me.
E che emozione, mi ritrovavo a tu per tu con il nuovo. Era tutto nuovo. Una nuova casa, una nuova équipe, una nuova stanza, un nuovo gruppo, ma soprattutto un nuovo genere e nuove emozioni.
Insomma … quanta nuovezza!!!!!
Se mi osservo ora, mentre ero indaffarata a preparare la “tavola imbandita”, mi rendo conto di quanto desiderassi in quel momento offrire tutti i materiali in maniera tale che risultassero invitanti. Ci avrei scritto biglietti tipo “provami” “scartami” “usami”.
Chissà perché poi proprio lì, chissà perché proprio in quel luogo, per la prima volta, ho pensato a rendere i materiali seduttivi … ero agitata. Ero emozionata.
Chissà come avrebbero reagito le ragazze nel momento in cui mi avrebbero visto, chissà se avrebbero opposto resistenza.
Eccole, arrivano, si raccolgono in cerchio e Alessia inizia a presentare il laboratorio. Sono tutte rapite, curiose, alcune impaurite, ma si affidano con semplicità, si calano con disinvoltura e delicatezza nell’esperienza. E chiedono. Non hanno paura e chiedono, si tolgono la maschera del «ce la posso fare da sola» e chiedono. E provano un materiale che non conoscono: la creta. Quanta profondità, quanta fragilità, quanto bisogno di cura.
Partono tutte per il loro viaggio, e tutte a modo loro accarezzano e coccolano il loro lavoro. Estrema cura, estrema attenzione, non si perde la precisione nemmeno quando si perde il controllo. Nemmeno quando si è in preda all’emozione. Tutte accarezzano le loro opere e io mentre cammino mi accarezzo le mani che hanno trattenuto un po’ di creta, quella creta che mi affascina, che mi piace tanto toccare, soprattutto quando si secca, quando fa da scudo alle lacrime. Ma poi qualcuna invece riesce a rompere quello scudo, e le lacrime le fa uscire tutte, mentre la presa di coscienza affiora spinta dalla forza della creta. La bellezza affiora attraverso la maestosità e la lucentezza dei colori, china, gesso, tempera … tutti i presenti fanno il lavoro: i materiali accompagnano il fluire delle esperienze di ognuno, le ragazze si affidano e io, sostenuta da Alessia e da qualche residuo di creta sulle mani, accolgo e contengo.
Ci ritroviamo con i lavori al centro sedute, accoccolate, sprofondate, abbandonate e sfinite sui divani. È il momento delle parole, che ancora una volta tacciono lasciando spazio alla magia dell’esperienza, ancora lacrime, ancora nodi che si sciolgono e catene che si rompono, finalmente si dà il via libera alla libertà, al delicato volo di una farfalla.