25 Gen Il reinserimento sociale è davvero un reinserimento nella società?
All’inizio del mio decimo anno come responsabile della comunità di reinserimento della Cooperativa Gasparina di Sopra volevo condividere alcune riflessioni che nascono dall’esperienza di questi anni, esperienza di persone incontrate, di relazioni educative, di percorsi finiti bene e di (apparenti) fallimenti.
La nostra comunità ha una mission chiara: sostenere le persone che hanno avuto problemi di dipendenze e che hanno fatto un percorso terapeutico, nel loro processo di “reinserimento” nella società.
E’ già da qualche tempo che questa cosa non mi convince fino in fondo. Non mi riferisco al tipo di lavoro che facciamo: è centrato sul recupero di abilità di ogni tipo, sia lavorative, che sociali, che familiari e relazionali in genere. Ci impegniamo affinché le persone abbiano un loro lavoro, un gruppo di amici, degli affetti, facciano sport e volontariato, abbiano degli interessi. Cerchiamo costantemente di trovare nuove modalità attraverso le quali aiutare le persone a guadagnare una propria autonomia. La dipendenza è una brutta bestia, si trasforma, resta latente per mesi e poi ritorna. Sono meccanismi che conosciamo bene e che insieme agli ospiti trattiamo come si deve.
IL CONCETTO DI REINSERMENTO SOCIALE
Quello che non mi convince è il concetto di “Reinserimento sociale”.
Mi sembra un modo elegante per dire che rispetto al fenomeno delle dipendenze la società non c’entri nulla. Come se da una parte ci fosse la società e dall’altra ci fossero i tossici (o ex). Come se ci fosse stato un prima, in cui queste persone erano nella società, ed un oggi in cui ne sono esclusi.
E’ questo che non mi convince: credo che le persone che abbiamo in cura (di questo si tratta) siano parte integrante della nostra società. Penso che alcuni meccanismi della società stessa abbiamo contribuito ad alimentare, o a far esplodere il problema su persone fragili, figli di famiglie fragili e che vivono in ambienti dove il confine tra povertà, disagio e delinquenza, è labile.
Con questo non penso minimamente che le persone tossicodipendenti non abbiano responsabilità nel loro percorso di autodistruzione. Il nostro lavoro è proprio quello di andare a cercare questa responsabilità, ripercorrere le scelte sbagliate e spingere a farne di alternative, trovare delle motivazioni diverse e recuperare delle idee di sé e del proprio futuro più umane.
Ho lavorato per qualche anno nei servizi psichiatrici. Il tipo di lavoro che facevo per alcune fasce di quell’utenza, era molto simile a quello che svolgiamo nella nostra comunità. Però non ho mai sentito parlare di “Reinserimento” per quelle persone. Certo: tutto il lavoro era in mano ai servizi… era delegato ai servizi… Possiamo dire che la società attraverso i propri servizi si prendeva cura di queste vite. Perché anche per noi non può essere così?
E’ evidente che per le dipendenze sia diversa la percezione. Si, perché il sentire comune è che in fondo i tossici “se la sono cercata”. E’ un pregiudizio. Punto.
CURARE CHI HA DELLE DIPENDENZE CI ARRICCHISCE
Penso invece che dentro le dipendenze possiamo intravedere alcuni meccanismi disfunzionali del nostro vivere. E penso che attraverso i processi di cura e riabilitazione delle persone dipendenti anche noi, “società”, abbiamo l’occasione per cogliere alcuni percorsi di cambiamento e miglioramento della qualità della vita di tutti. Chi ha l’opportunità di incontrare le persone che oggi sono in comunità, o che ne sono uscite ed oggi hanno una loro famiglia, un mutuo, un lavoro e dei figli, può davvero uscirne più ricco. So che le vite che incontro e ho incontrato in questi anni non sono mai “inutili” o banali. Spesso mi hanno ricordato l’essenziale.
Ecco perché non mi piace pensare ad un “reinserimento” nella società. Credo che attraverso il nostro lavoro noi ci stiamo prendendo cura di quella parte di società che “non ci stava dentro” ma non ne è mai uscita.
– Stefano Maistrello